“Tra i protagonisti a Torino a “Terra Madre Salone del Gusto 2018” il consorzio ATS Lucania Foods Fine and Quality che ha presentato i suoi prodotti con un stand dedicato al biologico e alla sua filiera. Le aziende partecipanti, gli oleifici Pace, Valluzzi e Frantoio Oleario Grassanese, l’azienda agricola Vignola e l’azienda Serre Alte, specializzata in produzione di pistacchio biologico, attraverso degustazioni e incontri a tema hanno illustrato a visitatori, esperti, buyer le linee di prodotti frutto del lavoro bio agricolo svolto nei territori lucani di appartenenza che vanno dal Vulture Melfese, terra d’Aglianico, fino alle colline materane”.

Lo comunica la Cia in una nota.

“Allo stand il coordinatore regionale de “La Spesa in Campagna” (Cia), Paolo Colonna, olivicoltore, ha spiegato che “tutelare la biodiversità agricola ha un valore ambientale ed economico e può contribuire a creare filiere ecosostenibili, efficienti e competitive. Le oltre 1.000 specie vegetali e animali oggi a rischio estinzione, tagliate fuori dalla grande distribuzione alimentare perché ritenute finora poco attrattive per il mercato, sono in realtà un asset che può valere almeno 10 miliardi di euro l’anno. Si tratta di un tesoro potenziale per il Made in Italy agroalimentare e per il turismo. Dietro ogni prodotto c’è una storia, una cultura ed una tradizione che è rimasta viva nel tempo ed esprime al meglio la realtà di ogni territorio.

L’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali realizzato dal Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali riconosce 114 prodotti lucani, di cui 39 classificati quali paste fresche e prodotti panetteria e pasticceria; 32 prodotti vegetali allo stato naturale o trasformati; 17 carni fresche e loro preparazione; 14 formaggi; 4 prodotti di origine animale (miele, lattiero-caseari); 3 prodotti della gastronomia, uno bevande alcoliche, distillati e liquori (il sambuco di Chiaromonte). Nel dettaglio la situazione lucana: formaggi – 2 dop e 1 igp; ortofrutticoli e cereali – 2 dop e 2 igp; olio extravergine di oliva, 1 dop; altri prodotti, 1 igp. I produttori lucani interessati sono 96 (erano 65 nel 2011) per una superficie di 157,14 ettari; 37 gli allevamenti (di cui 15 suinicoli per 30mila capi) ; 40 i trasformatori, 45 gli impianti di trasformazione per complessivi 129 operatori.

Abbiamo un potenziale enorme che – ha sottolineato Donato Distefano della struttura regionale Cia – non a caso è indicato dal Rapporto Censis come “energia positiva”, tenuto conto che la quota dell’export alimentare del “made in Basilicata” è appena dello 0,1% dell’ammontare complessivo delle Regioni del Sud e che la tendenza del “mangiare italiano”, nonostante la crisi dei consumi, è comunque positiva con 35 miliardi di fatturato. Tanto più che l’alimentare “made in Basilicata” continua a tirare sui mercati esteri persino rispetto ad auto (Fiat) e salotti.

La produzione di prodotti tipici – aggiunge Colonna – è importante per le varie zone della Basilicata perché è anche fattore di comunicazione della cultura e del paesaggio in cui questi sono inseriti. Per questo motivo dobbiamo lavorare per innalzare la qualità dei prodotti tipici che calati nel contesto degli agriturismi, alberghi, borghi albergo, ristoranti, musei della civiltà contadina, artigiani, commercianti consentono di proporre l’intero territorio, dando così vita ad una nuova filiera agricoltura-turismo-ambiente-cultura. L’obiettivo centrale è quello di accrescere la fruibilità del territorio e le opportunità occupazionali dei territori rurali attraverso lo sviluppo e il sostegno di attività non tradizionalmente agricole.

L’agricoltura –sottolineano Cia e Anabio – continua a perdere terreno, minacciata costantemente dall’avanzata del cemento, che solo negli ultimi vent’anni ha divorato più di due milioni di ettari coltivati. Un furto di suolo agricolo che procede a ritmi vertiginosi: circa 10 ettari l’ora, quasi 2.000 alla settimana e oltre 8.000 al mese, calpestando quotidianamente paesaggio e terreni produttivi. E a rischiare più di tutti gli effetti negativi di questo trend sono proprio gli oltre 5.000 prodotti agroalimentari tradizionali, che per volumi ed estensione territoriale non rientrano tra quelli tutelati a livello Ue dai marchi Dop e Igp, ma rappresentano veramente la storia e la ricchezza dell’agroalimentare italiano. Tante le antiche specialità, riscoperte e portate avanti da agricoltori-custodi, che -valorizzate e riadattate agli attuali modelli di business- potrebbero creare valore aggiunto e indotto, doppiando il giro d’affari del turismo enogastronomico italiano (5 miliardi di euro). La tipicità è l’aspetto più caratterizzante dell’agricoltura italiana, per cui il legame tra territorio e prodotto è fondamentale”.